martedì 25 novembre 2008

Fughe

L'arte della fuga ... mirabile Glenn Gould in questa interpretazione di Bach, non trovate? Perché anche la fuga certe volte è un'arte.
Sono giorni in cui non ho molta voglia di comunicare. Mi sono un attimo ripiegata su di me. A volte capita Vale ma credo che tu dovresti saperlo. Un bacio.

sabato 22 novembre 2008

domenica 16 novembre 2008

You're the cream in my coffee

A tutti gli amici che oggi mi sono stati vicini un bacio e un regalo. Una canzone fine anni '20 che io amo molto. Ho trovato oggi questa versione decisamente più recente e la voglio condividere con voi:


Piesse: va un po' meglio.
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Piesse di secondo grado. Galeotta fu la canzone e la curiosità di DonnaChenina che non finirò mai di ringraziare per avermi regalato la possibilità di imbattermi in una delle lettere d'amore più strazianti e fagocitanti che mi sia mai capitato di leggere, la Lettera di Anna Lucia Joyce a Samuel Beckett. Vale, leggila. Ti piacerà. Buonanotte a tutti.
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Piesse di terzo grado. Aggiornamento delle ore 18.13 del 17 novembre 2008.
You’re the cream in my coffee,
(Tu sei la crema nel mio caffè)
You’re the salt in my stew;
(Sei il sale nel mio stufato)
You will always be my necessity—
(Sarai sempre la mia necessità)
I’d be lost without you.
(Sarei persa senza di te)
You’re the starch in my collar,
(sei l’amido nel mio colletto)
You’re the lace in my shoe;
(Sei il laccio nella mia scarpa)
You will always be my necessity—
(Sarai sempre la mia necessità)
I’d be lost without you.
(Sarei persa senza di te)
Most men tell love tales,
(La maggior parte degli uomini raccontano storie d’amore)
And each phrase dovetails.
(Ed ogni frase forma un tutto organico)
You’ve heard each known way,
(Tu ne hai sentito parlare in ogni modo noto)
This way is my own way.
(Questo modo è il mio modo)
You’re the sail of my love boat,
(Tu sei la vela della mia barca dell’amore)
You’re the captain and crew;
( Ne sei il capitano e la ciurma)
You will always be my necessity—
(Sarai sempre la mia necessità)
I’d be lost without you.
(Sarei persa senza di te)
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Della serie: l’effetto spoetizzante della traduzione!!! Ma che bel testo profondo. Quale uomo al mondo, quale, non s’innamorerebbe di una donna che lo paragona al “sale nello stufato”? This way is my own way. Lo dovevo a DonnaChenina. E l’ho fatto.

La verità è che ...

Rifletto. C’è come una stretta intorno alla mia scrittura, come un non so che di trattenuto-trattenente che la stringe rendendomela talora imprigionante. Le omissioni. Credo che siano le omissioni. Leggo in questi giorni uno che scrive col sangue e con la carne, ai limiti della comprensibilità se lo si legge con un approccio di tipo logico-razionale. Mi avvince questa scrittura. C’è una verità umana che non leggo nelle mie parole, che mi sembrano talora pareti bianche altre volte nere dove vanamente mi dibatto. C’è molta forma nella mia scrittura. Non c’è che dire. Ma la sostanza dov’è? Dov’è l’emozione? Sembra nascondersi pervicacemente in una zona che neanche io riesco ad attingere. Stamattina, per esempio, c’è una sofferenza, c’è un dolore che non so dire. Proprio non mi riesce. La verità è che sono depressa. Già da un po’. La verità è che ho visto l’altra mattina un medico dopo anni che non ne vedevo uno. La verità è che da qualche giorno prendo dei farmaci, di quelli che non ottundono il cervello, non addormentano il dolore. Prendo la serotonina. La verità è che i primi giorni non c’è nessun effetto riscontrabile. Me l’ha detto il medico. Comincia a fare effetto dopo una decina di giorni. La verità è che spero che cominci presto perché non ne posso più. La verità è che spero che non venga nessuno qui con un prontuario di istruzioni su come si esce da questo stato, che nessuno venga a dirmi che la vita è bella e che prima o poi si esce dal tunnel. Che nessuno venga a dirmi che essere meraviglioso sono e quanti strumenti ho per affrontare tutto questo, che nessuno mi venga a parlare di autostima, che non ne posso proprio più, mi viene un prurito a questa parola, un prurito da orticaria e un successivo conato di vomito. La verità è che sto male. Punto.

sabato 15 novembre 2008

Lo Straniero



Premessa

Poco più di un anno fa ho conosciuto un uomo che ha abitato nella mia vita per qualche mese e mi ha insegnato delle cose. In una notte senza sonno mi ha raccontato la sua vita e la sua malattia. Aveva un modo di vivere la malattia e di raccontarla straordinario.
Quando si sta male in un certo modo c’è o la strada o l’ospedale, diceva …
La sua storia meriterebbe di essere scritta ché è davvero una storia forte. Non sarò però io a farlo. Scrissi in quel periodo un brevissimo racconto “Lo Straniero” in cui immaginavo la morte della madre di quest’uomo e una sua reazione a quest’evento. Nella storia “lui” fa la parte di un architetto (nella realtà l’uomo era un disoccupato che viveva di una pensione di invalidità e di qualche residuo di un’eredità pressoché sperperata oramai). Nella storia lui ascolta la “lirica”. Nella realtà credo che la detestasse perché il padre (un melomane) lo aveva costretto da bambino a seguire concerti lirici, ecc. ecc.
Quest’uomo non c’è più nella mia vita, ché qualche mese dopo la nostra conoscenza fu costretto a partire e a tornare nel centro Italia, dove, per quanto ne so io, vive con la madre da qualche mese. Partì precipitosamente dal Salento. Non feci in tempo a dargli il mio regalo di Natale, il libro di Rampino sull’India che da allora giace in cima alla mia libreria in una carta color dell’arancia. E’ lì perché se un giorno lui dovesse tornare nella sua casa sul mare vorrei che ci arrivasse con il mio dono che non ho potuto dargli allora. A quest’amico va oggi un mio pensiero d’affetto.

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Lo Straniero

Alte risuonavano le note di Oh Madre Mia nelle voci di Amilcare Ponchielli e Maria Callas. Attraversavano le pareti rimbalzando di scalino in scalino nella vecchia casa di città e poi invadevano il quartiere a grande forza. I vicini sopportavano pazientemente. In fondo solo di tanto in tanto di domenica mattina l’architetto alzava il volume e l’opera si ascolta così. In fondo l’architetto era una persona garbata, salutava sempre quando lo si incontrava per strada e poi si sollevava con uno scatto improvviso il bavero del cappotto color cammello. Da quant’è che abitava lì? Beh, saranno sette anni, almeno. Sempre lo stesso cappotto color cammello. Un’appendice del suo corpo. Impossibile pensare a lui senza immaginarselo nel suo cappotto, lungo ed elegante.
Quand’era arrivato lì, si pensava che fosse di passaggio, come gli inquilini che passavano sempre da quella casa, la casa di Giovanni. Giovanni, il benzinaio, quello che era stato coinvolto in quell’affare lì, quello delle case da gioco. Poverino, fare quella fine lì! Non aveva retto la vergogna. Si era sparato un colpo in testa una sera di dicembre di, quanto tempo sarà passato? Dieci? No, di più. Dodici anni, almeno.
La famiglia aveva abbandonato il quartiere pochi mesi dopo e la casa, quella grande casa di città era stata data in affitto. L’architetto era quello che si era fermato di più, lì.
La voce della Callas risuonava forte quando un trillo insistente lo richiamò alla realtà. Si scosse e lentamente alzò il ricevitore. Riconobbe subito la voce e capì dal timbro metallico che si trattava di qualcosa di serio. “Vieni”, disse Marta, “è ora di tornare”. Non ci fu bisogno di aggiungere altro. Da tre anni ormai non la sentiva, mai.
Un solo cambio d’abito sarebbe bastato. Preparò il bagaglio. Spense lo stereo ed andò a prendere il treno. La stazione affollata, come sempre, accolse l’architetto. Fece il biglietto per Roma e aspettò l’intercity delle 18.00.
Sul treno si alzò il bavero del cappotto quasi a proteggersi meglio dal freddo. Ma non c’era freddo nello scompartimento. Il suo freddo veniva da dentro e da lontano.
Appuntò lo sguardo fuori dal finestrino e rivide la casa di Roma, le alte porte laccate di bianco con i freddi pomelli, anch’essi bianchi. La luce che filtrava dalle persiane verdi sempre chiuse al mondo e lei. La rivide nei suoi gesti più consueti, quando con civetteria si scostava i capelli ramati dietro le spalle. La rivide mentre sorrideva al tavolo della sala da pranzo, mentre sorrideva a Tommaso, con quello sguardo di complicità senza fine, complicità da cui lui era escluso. Tommaso … Da bambino, era stato il suo idolo. Lui, le sue macchine sportive, l’ironia, l’intelligenza di Tommaso.
Tommaso … L’avrebbe trovato lì? Ne dubitava.
Arrivò a Roma dopo circa un paio d’ore. Aveva fame. Si fermò a mangiare qualcosa, in un luogo di poche pretese. Tranquillo. Alla sua portata. Già. Cos’era lui, se non un uomo di poche pretese, in fondo! Così diverso da Tommaso, senza grandi ambizioni. Lontano dalle luci della ribalta. La ribalta!
Lei era fatta per il palcoscenico. C’era una teatralità diffusa, sempre in lei. Sempre. Ma c’erano momenti in cui la sua forza di istrione veniva fuori quasi in modo furioso. Quando faceva tintinnare i cubetti di ghiaccio scintillante nel bicchiere, nella sua quotidiana sfida all’alcool.
Arrivò a casa che erano già le 23.00. Marta gli aprì la porta. Lui la guardò. Non era cambiata molto. Ci aveva pensato lei, gli disse. Aveva chiamato un’agenzia. Si erano occupati loro di tutto.
L’architetto diede uno sguardo alla casa. Com’era diversa rispetto ad allora! L’odore di piscio di gatti aveva invaso tutto lo spazio. Non più l’odore di lavanda dell’infanzia. Poi andò in camera. La guardò. “Sei ancora bella”. Pensò. “Bella come allora”. Chiuse la porta dietro di sé e disse a Marta: “Andiamo, torniamo domani per il funerale”. Uscirono per strada. C’era freddo. Una falce di luna splendeva nel cielo terso di marzo.

Ichnusa



Su un bicchiere di vino festeggiammo Paolo e la sua sposa. Era un secolo fa. Oltre i confini del mare nell’isola dove il tempo si è fermato. Chiudemmo il matrimonio con il sangue rosso rosso di cannonau stanchi di una lunga giornata di festa, cantando insieme una dolce canzone d’amore. E stamattina ripenso al mio sandalo sperso nel Mediterraneo.
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Ligustro.
Tavola Nera. La Lontananza.

giovedì 13 novembre 2008

Asilo

Premessa.

Un anno e mezzo fa circa avevo cominciato a scrivere una storia, la storia di Maria (da non confondere con l'attuale Maria Zambrano, per atto di appropriazione indebita). Ne scrissi diverse pagine. Poi la storia non ne volle più sapere di essere scritta. E si interruppe. C'è una pagina però di quella storia a cui sono particolarmente affezionata ed è quella pagina che posto oggi da qui.

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Lei ha lo sguardo severo, che intimorisce. Ti penetra l’anima come lama quando viene a cercarti con gli occhi e ti denuda. Spesso è triste Maria, ma quando ride, quando ride la sua risata è un fuoco che accende tutto attorno a sé di un caldo colore di rosso.

Un giorno Maria, che pure non indulge a facili confidenze, mi ha raccontato di quando era bambina, di sua madre e delle suore. Ricorda vividamente la scena quotidiana di lei e la madre, al cospetto della suora portinaia, vecchia vecchia e con tante rughe, seduta su una poltroncina nell’angusta e scura anticamera dell’orfanotrofio. La suora portinaia tutti i giorni guarda la madre negli occhi e dice “Ancora?”. La madre non risponde e scappa via in tutta fretta come se avesse qualcosa di urgente da fare … Maria tutti i giorni si chiede cosa significhi quell’ “ancora”! E si perde in storie fantastiche a riempire l’ancora misterioso della suora portinaia.Dopo l’angusta anticamera, si entra in un enorme cortile interno, un inno alla luce, con una fontanella alla destra sormontata da una piccola Madonnina mantata di azzurro. E poi si aprono le grandi vetrate che danno accesso a una grande sala. A sinistra si affaccia la cucina con suor Giovanna sempre indaffarata dietro enormi pentoloni fumanti, suor Giovanna talvolta la porta con sé ma non le dà grande attenzione, perduta com’è dietro questi fumi odorosi, Maria però guarda ed è contenta di partecipare, in silenzio e in disparte, a questo grande rito della preparazione dei cibi.

A destra della sala la grande scalinata che porta al piano alto, alle camere delle suore e delle orfanelle, quello è il luogo proibito, le è assolutamente vietato accedere a quell’ala della casa, lei non è un’ “orfanella” e Maria si accende tutti i giorni del desiderio di visitarla, perché lì si nascondono i segreti della vita vera. Così pensa Maria tutti i giorni, sì ne è certa, la vita vera della “casa” è lì, nel luogo che le è interdetto. Sempre a destra della sala di ingresso si apre l’enorme refettorio, lì si consumano i pasti, la “pasta e fagioli” di suor Giovanna e la “pasta asciutta” che è davvero asciutta, colore di rosa, ma il gusto della “pasta asciutta” di suor Giovanna, Maria se lo ricorda ancora tutto e si rammarica per non averlo mai più ritrovato altrove. Dopo il pranzo le “orfanelle” sparecchiano in fretta e in modo festoso. Maria vorrebbe aiutarle ogni giorno, ma non può farlo, le suore non vogliono, lei non è un’ “orfanella” e Maria sta a guardare da un angolo e ha voglia di piangere perché non è giusto non essere un’orfanella. Le orfanelle la guardano dispettose, peggio per lei che non è un’orfanella e qualcuna glielo sussurra anche ogni tanto. Maria vorrebbe piangere, ma non sa farlo. Dopo pranzo il refettorio diventa l’aula per i compiti e il doposcuola. Intorno ai quattro anni, Maria sa già scrivere, la sua prima parola è SALE e la scrive in cucina un giorno che spia suor Giovanna. Quando suor Giovanna se ne accorge, urla come una pazza dall’entusiasmo: “Scrive, scrive” e le spara un bel bacio in fronte, bacio al sapore di vaniglia. Da allora Maria comincia con la scrittura, e copia copia copia le parole della cucina per ricevere un bacio, ogni giorno dal sapore diverso, tutti i sapori di suor Giovanna.Di sera la madre la riprende e la suora portinaia ha uno sguardo d’accusa per lei. Sempre più tardi, dice, sempre più tardi, lo sai che non è giusto così, vero? La madre abbassa gli occhi e poi scappano insieme nel buio. A casa si cena sempre in modo frugale e la sera a letto Maria sogna le grandiose cene nel refettorio e i sapori di suor Giovanna e le risate delle orfanelle. Non è giusto Signore, non è giusto borbotta. Perché non sono un’orfanella?

mercoledì 12 novembre 2008

Senza parole

Elgar Cello Concert 1st Mov.

Cello: Jacqueline du Pré

martedì 11 novembre 2008

Com-mistioni







Mi chiedo se non mi stia venendo una crisi mistica … sarebbe oltremodo curioso dopo una vita di professioni di agnosticismo (ma si dice così? … agnosticismo???). Che non si stia disvelando progressivamente un velo? Che non finisca i miei giorni nella pace di un chiostro? In fondo l’eremitaggio è iniziato già da un po’. Solo un segnale? Giusto un primo passo? Stiamo a vedere e non mettiamo limiti alla prov-videnza divina.
Sono arrivata alla “vanità delle vanità” a partire da una piccola riflessione sui fuochi fatui e da una immagine che ha colpito la mia attenzione, questa:

Sì, sì … lo so che è una strana mescolanza di sacro e profano, ma un po’ mi rappresenta questo strano connubio. O meglio, rappresenta il mio stato d’animo di stamattina, 11 novembre 2008.

domenica 9 novembre 2008

Melograna



Sgrano pensieri rosso succosi come di melograna penzolante da un muro di autunno cittadino. Schizzi di sangue cercano improbabili complici a un pensiero vagabondo. Solitudine avvolta in un sudario di ore lente dove si macera la carne nella ferita antica. E l’equilibrio è un simulacro che si s-contorna sempre in un alone di luna appesa nel cielo. Il tradimento della parola prima di tutto mi presenta un conto che non so più pagare.
Forse è il silenzio l'unica via, la via che non so più praticare.
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Sandro Botticelli,
Madonna della Melagrana

sabato 8 novembre 2008

Nell'orror di notte oscura

Riempio il tempo di questo sabato con una manciata di cose. E che succede? Gesti? Di sabato? E non è sempre dedicato alla paralisi il sabato? Che qualcosa stia cambiando?
In ordine sparso e assolutamente non cronologico:
Ø Leggo. Ancora Cioran. Mi annoio. Leggo una conversazione dove parla di politica. Mi annoio. Se non afferro le cose nella loro interezza, mi annoio in genere. Ergo: spesso mi annoio, ché del tutto raramente afferro le interezze.
Ø Idea: e se girassi i materassi? La schiena potrebbe trovarne giovamento? Pensato, fatto … cosa che è piuttosto strana, considerato che normalmente intercorrono sempre spazi piuttosto dilatati tra i miei “progetti” e i tentativi di realizzazione.
Ø Cambio delle lenzuola. Giacché ne approfittiamo.
Ø Lavatrice … yeah. Se riusciamo anche a stenderla subito dopo il lavaggio, qualcuno comincia a preoccuparsi.
Ø Accendo il riscaldamento. Così questa umidità che ci accompagna da qualche giorno la neutralizziamo almeno per un po’. Scrivo da un’aria calda, quasi tropicale.
Ø Sento musica. Capossela: Il Ballo di San Vito.
Ø E nel frattempo scrivo pure un breve post su questo sabato pomeriggio.
Ø Bevo un caffè. Buono.
Ø Penso agli amici lontani che non ricevono segni della nostra esistenza in vita da un po’.
Ø Rifletto: faccio parte dell’accolita dei rancorosi e non ho problemi ad ammetterlo in questo mondo dei blog dove regnano i buoni sentimenti. Sono una rancorosa, nonché iraconda. Punto.

Piesse. La canzone che segue è dedicata all’uomo che solo grazie al potere liberatorio della mia scrittura è ancora in vita, altrimenti sarebbe già morto da tempo. L’uomo tenuto in vita dal mio disprezzo e ancor di più dall’odio.



Piesse di secondo grado. Un po' di melodramma non guasta mai. Adoro il melodramma. Ri-punto.

La sua figura

Giuni Russo - La S...

Una manciata di ore a separarmi dal gelo di una stazione. Certe stazioni ti restano dentro in mille modi diversi. Di quella sera ricordo la faccia di un tassista e il suo sguardo ammiccante. Ero una probabile cliente in una sera di gelo e di solitudine, una sera scarsa di affari. Così pensava lui ... ma così non era. Spesso le cose non sono come sembrano. Ero lì per un motivo solo. Scavarmi la ferita fino in fondo con un coltellino a punta fine che mi facesse ricordare di quelle ore non solo il freddo e la faccia di un tassista.

Strade Maestre: Novecento

7 novembre 2008
h. 21.00 (o poco più)

Città: Lecce
Scenario: Cantieri Teatrali Koreja




Pioviggina ancora. Arriviamo a teatro dopo avere percorso almeno un chilometro nel senso vietato di un senso unico. Tantissimo il pubblico che aspetta di entrare in sala, un pubblico composito, vario per età e sicuramente per formazione. C’è una grande aspettativa per questo “Novecento” (trecentoquindici repliche in Italia e in Europa dal 1995 al 2002) che apre la stagione teatrale dei Cantieri quest’anno e che da quest’anno ri-prende il palco.
All’improvviso si fa buio in sala. Un buio totale e … inizia lo spettacolo.



Eugenio Allegri tiene la scena in modo magistrale per 105 minuti nel lunghissimo monologo che racconta la storia di Danny Boodmann T.D. Novecento, un’opera che fa riflettere sul significato dell’esistenza, e sul rapporto tra realtà “vera”, e la realtà che l’uomo “decide” consapevolmente (o inconsciamente) di vivere.
Bello lo spettacolo. Un’unica piccola critica. Se fosse stato leggermente più concentrato nel tempo probabilmente la mia schiena avrebbe retto meglio. A un certo punto sul “Virginian” una nota stonata è comparsa: una fitta più o meno insistente alla schiena, la mia, che ha iniziato progressivamente a farsi strada verso l’addome e mi ha un po’ dis-tratta.
Alla fine siamo usciti per strada che c’era freddo … L’autunno comincia a diventare molto più che un indizio nell'aria.

venerdì 7 novembre 2008

Teatro

La vita non è che un' ombra che cammina, un povero attore che si agita e si pavoneggia per un'ora sul palcoscenico e poi non si sente più; è una storia raccontata da un idiota, piena di suono e di furia, che non significa nulla. (William Shakespeare)

Il tutto per dire che stasera si va a teatro. Mi ha incastrato un'amica giorni fa, un giorno che ero distratta evidentemente.

giovedì 6 novembre 2008

Indizio d'autunno

Questi amanti non sono gli amanti di Magritte ma non importa ché l'arte genera arte ...

E’ arrivato oggi l’autunno. Anche qui. Ha piovuto. Per la prima volta quest’anno ho indossato un maglioncino in lana sotto il giubbotto estivo mezz’ora fa andando in libreria. L’acciottolato era bagnato di pioggia sotto la luce rossa dei lampioni. E spirava la tramontana. Fredda sulla pelle. C’era musica araba per strada. Si inaugura stasera un nuovo locale sul corso. Tanti vassoi facevano mostra di sé ma forse era ancora presto. Il locale era vuoto se non per i gestori e pochi amici? Si sentiva l’eccitazione. E anche un po’ di tensione nell’aria. Avevano facce piene di aspettativa come capita sempre a una nuova avventura. Poco più in là la luna in Piazza Duomo era avvolta da un alone biancastro. E’ il luogo più magico della città per me. E’ un luogo che ispira un gran senso di pace solo a guardarlo.
Ho tra le mani Chiari del bosco e Dalla mia notte oscura e mi sembra così che l’atto di appropriazione indebita sia meno grave avendo qui ora con me due libri veri di María Zambrano.
Ne accarezzo la copertina con lo sguardo, con le mani, con il cuore … poi apro a caso Chiari del Bosco e leggo:
E’ profeta il cuore, come ciò che essendo centro si trova su un confine, sempre in procinto di spingersi più in là di dove già si è spinto.
Credo che sarà un inverno denso di letture il mio. Cominciano ad essere tanti i libri da leggere adesso. Sarà ora di cominciare a farlo sul serio e in modo più sistematico? Credo di sì.

P.S. Anche durante la passeggiata di oggi la città mi era amica ed è un buon segno.

mercoledì 5 novembre 2008

C'è che ...

C’è che sono giorni strani, di altalenanti umori, di labili emozioni con qualche momento di scollamento qua e là. A volte capita. Ci sono dei momenti in cui tutto tace. Mi sembra di vivere il mondo come attraverso uno schermo, come se niente mi appartenesse. Proprio nulla. E forse così è, di fatto. Solo che non me ne ero accorta prima d’ora. E’ come una lucida presa di coscienza. Nulla mi appartiene. Niente. Neanche me stessa. Come sto? Difficile a dirsi. Davvero. Forse ci sono stati giorni peggiori. O forse no. Non lo so.
Qualcuno prova a stanarmi senza esito. Un amico di vecchia data incontrato per strada e per caso mesi fa. Scrive. Romanzi. Vorrebbe darmi dei manoscritti affinché io li legga. E’ da giorni che prova a stanarmi senza esito. E’ un tipo sui generis. Mai venuto a patti con le necessità del quotidiano. Vive di espedienti appoggiandosi a chi di volta in volta gli si offre come spalla in cambio di un po’ di compagnia, un po’ di mutuo soccorso. Mi ha raccontato un po’ degli ultimi suoi anni nei giorni in cui l’ho visto. Scenario: Roma, appartamento di un noto poeta morto qualche anno fa, una sorta di poeta maledetto dei giorni nostri. E poi convivenza con vecchia signora ammalata di solitudine metropolitana e poi spettacolo teatrale nato per caso in una fumosa conversazione in un bar con attore teatrale appena conosciuto …
Le nostre migliori cose nascono sempre per caso.
L’ho visto nei giardini pubblici della città l’ultima volta ed è lì che gli ho promesso che avrei letto le sue cose. Non riesce però a stanarmi, non ho voglia di essere stanata per adesso e forse neanche molto di entrare nel suo mondo. Non ora. Non ora. Ma verrà il tempo.
Andrea prova a trascinarmi in palestra. Sono due mesi che ci prova. Alla fine lui si è iscritto e lunedì ha fatto la sua prima lezione. Ed io? Quando mi iscrivo? Quando? Mi interroga a giorni alterni. Forse, tra un po’. Ma non ora. Non ora. Aspettiamo che giunga l’autunno ché è ancora estate qui e c’è caldo. Forse. Tra un po’. Sorrido dicendolo. Lui sa che è molto improbabile questa mia iscrizione. Quando arriverà l’autunno, mi metterò ad aspettare l’inverno.
Esco ogni tanto a camminare in città. Incontro quasi sempre una faccia nota, il fratello di un amico che non è più nella mia vita. Leggo nel suo viso altri tratti. Si somigliano, sì. Mi torna in mente il suo viso e mi pare di risentire la sua voce baritonale. Non c’è dolore però. Non sento dolore. Deve essere sempre per via di quello schermo tra me e il mondo. Come sto? Come una che sta imparando a schermarsi … pochi momenti di passione, ma anche poco dolore. Mi guardo senza quasi ri-conoscermi.
Poi arrivano certe sere. Certe sere che mi risento un nodo all’altezza dello stomaco, quando una sola parola, detta o non detta, può gettarmi nello sconforto più totale. Mi ritrovo con tutta la mia dolente umanità. Gretta. Meschina. Soggetta a sentimenti altrettanto gretti e meschini. Mi volgo a cercare lo schermo. Dov’è lo schermo? Dove si è nascosto stasera?
Come sto? Così sto. Così come ho cercato di raccontare.
C’è che stasera spaccherò una melograna tentando nell’aprirla di non macchiare di rosso tutto il mondo attorno a sé.

Disamore

Ci sono giorni in cui il solo latrare di un cane lontano può farsi scrittura, giorni in cui potrei scrivere pagine fitte sul brusio che ora mi viene dalla piazzetta a pochi passi da me, e tratteggiare con questo brusio un quadro animato di colori, di persone, di vita. Oggi invece di questo brusio io sento solo il brusio, indistinguibile, che non può essere riempito se non del poco spazio vuoto tra me e la piazzetta ancora illuminata da un sole cocente. Scrivere della piazza, della luce bianca che la racchiude in questo inizio d’estate, delle pigre colazioni al tavolino del bar sulla piazzetta che di tanto in tanto mi consento quando mi metto a spiare l’umanità cercando di leggere tra le rughe dei passanti una storia, lo so fare in certe ore.
Ci sono ore in cui le parole si disamorano di me, sono le ore della distonia quando a malapena mi rimane sentore della mia stessa umanità. Il mondo si oscura in quelle ore. La piazza scompare. Si tira giù il sipario e mi ritraggo.

(estate, 2008)

lunedì 3 novembre 2008

Occhi stranieri

Solo una leggera brezza spira sulla città stasera, la pietra bianca sotto i lampioni in un abbraccio di calda luce color rosso soffuso. Ho visto la città stasera con gli occhi di uno straniero e ho bevuto alla sua magia come a una sorgente di acqua purissima. Camminavo tra la gente e non ero sola. Neanche per un attimo mi sono sentita sola. Occhi stranieri mi hanno tenuto compagnia. Che sensazione strana, anzi no stranissima. Quanto si può essere presenti in un’assenza se solo è il cuore a volerlo. Un’unica nota stonata: tutte le volte che cerco un titolo in questi giorni in libreria mi viene chiesto di ordinare e devo sempre procrastinare un po’ più in là il desiderio di indugiare sulle uniche parole che al momento mi sembrano degne di essere lette. Bisognerebbe che aprisse la Feltrinelli qui. Questa città con la Feltrinelli non potrebbe essere eguagliata da nessun’altra. Nessun altro posto vorrei se almeno qui ci fosse la Feltrinelli … forse.

Silenziosa

domenica 2 novembre 2008

Non conosco l'amore degli adulti

Per scrivere (potrei dire per vivere, ché le due sfere si intrecciano nella mia esistenza) ho bisogno di immaginare che ci sia qualcuno che all’improvviso voglia fare un viaggio dentro di me, che voglia scendere fino al fondo di me, quel fondo dove giacciono i miei pensieri più intimi, quelli inconfessabili, quelli inconfessati persino a me stessa, quel fondo dove come in una palude stagnante e maleodorante stanno anche le mie meschinità di donna, dove ci sono le ferite, le paure e le piccolezze. Non sono un gioiello io. Ho delle cose buone e tanto male dentro. Non c’è niente di equilibrato in me. Io sono tutti i miei eccessi. A chi voglia amarmi altro non chiedo che di amare i miei stessi eccessi. Qualcuno li ha amati, qualcuno ha amato la mia malattia aiutandomi a viverla per un po’.
C’è una persona che mi ha amato a lungo. Per tanti anni a colazione si apparecchiava la tavola con delle tovagliette plastiche, la sua era quella con le coccinelle. La mia non la ricordo. Sulla sua tovaglietta tutte le mattine c’era una fila di pillole. Le pastiglie che allontanavano quella che sarebbe stata una morte certa senza quei farmaci salvavita. Facendo colazione però ed anche nel resto del tempo sapevamo che chi era davvero ammalato di morte ero io. Credo che sia la persona che mi ha amato più di tutti. Amava anche la morte dentro di me, anche se a tratti sentiva tutta l’impotenza di non sapermi ri-animare.
A chi si avvicina a me chiedo di essere amata come si fa con un bambino, con la condiscendenza di chi sa che solo vezzeggiandomi, adulandomi e quasi adorandomi riesco ad eludere la morte ogni tanto. Non conosco l’amore degli adulti. Non mi è mai appartenuto.

sabato 1 novembre 2008

Con una rosa



Ci alzammo al mattino che il mondo era tutto in quel riquadro davanti a noi, un mare calmo e una tramontana fredda sulla pelle. Sapevo che non l’avrei più rivisto quell’angolo di cielo.
Scendesti a fare il fuoco. Per fare asciugare le pareti, dicevi. Per fare asciugare le pareti. Scesi dopo un po’ e mi misi accanto a te. Ha provato a chiamarmi più volte, ti dissi. Su uno sgabello davanti al fuoco, con un pesante maglione alle spalle, dicesti: Chiamalo. Ti dissi: no. Sarebbe uno sbaglio. Dicesti: chiamalo. Magari non lo è. Lo chiamai. Poi dopo presi un treno. Si presentò con una rosa, rossa.
La casa adesso è chiusa, almeno credo. Quell’angolo di cielo e di mare è ancora lì. Ed anche oggi intreccio le mie ore a un’illusione. E sorrido alle mie mille ingenuità.
C’è una tomba dove non ho mai pregato. Forse devo andare a farlo. Forse non posso più sottrarmi.