martedì 25 novembre 2008

Fughe

L'arte della fuga ... mirabile Glenn Gould in questa interpretazione di Bach, non trovate? Perché anche la fuga certe volte è un'arte.
Sono giorni in cui non ho molta voglia di comunicare. Mi sono un attimo ripiegata su di me. A volte capita Vale ma credo che tu dovresti saperlo. Un bacio.

sabato 22 novembre 2008

domenica 16 novembre 2008

You're the cream in my coffee

A tutti gli amici che oggi mi sono stati vicini un bacio e un regalo. Una canzone fine anni '20 che io amo molto. Ho trovato oggi questa versione decisamente più recente e la voglio condividere con voi:


Piesse: va un po' meglio.
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Piesse di secondo grado. Galeotta fu la canzone e la curiosità di DonnaChenina che non finirò mai di ringraziare per avermi regalato la possibilità di imbattermi in una delle lettere d'amore più strazianti e fagocitanti che mi sia mai capitato di leggere, la Lettera di Anna Lucia Joyce a Samuel Beckett. Vale, leggila. Ti piacerà. Buonanotte a tutti.
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Piesse di terzo grado. Aggiornamento delle ore 18.13 del 17 novembre 2008.
You’re the cream in my coffee,
(Tu sei la crema nel mio caffè)
You’re the salt in my stew;
(Sei il sale nel mio stufato)
You will always be my necessity—
(Sarai sempre la mia necessità)
I’d be lost without you.
(Sarei persa senza di te)
You’re the starch in my collar,
(sei l’amido nel mio colletto)
You’re the lace in my shoe;
(Sei il laccio nella mia scarpa)
You will always be my necessity—
(Sarai sempre la mia necessità)
I’d be lost without you.
(Sarei persa senza di te)
Most men tell love tales,
(La maggior parte degli uomini raccontano storie d’amore)
And each phrase dovetails.
(Ed ogni frase forma un tutto organico)
You’ve heard each known way,
(Tu ne hai sentito parlare in ogni modo noto)
This way is my own way.
(Questo modo è il mio modo)
You’re the sail of my love boat,
(Tu sei la vela della mia barca dell’amore)
You’re the captain and crew;
( Ne sei il capitano e la ciurma)
You will always be my necessity—
(Sarai sempre la mia necessità)
I’d be lost without you.
(Sarei persa senza di te)
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Della serie: l’effetto spoetizzante della traduzione!!! Ma che bel testo profondo. Quale uomo al mondo, quale, non s’innamorerebbe di una donna che lo paragona al “sale nello stufato”? This way is my own way. Lo dovevo a DonnaChenina. E l’ho fatto.

La verità è che ...

Rifletto. C’è come una stretta intorno alla mia scrittura, come un non so che di trattenuto-trattenente che la stringe rendendomela talora imprigionante. Le omissioni. Credo che siano le omissioni. Leggo in questi giorni uno che scrive col sangue e con la carne, ai limiti della comprensibilità se lo si legge con un approccio di tipo logico-razionale. Mi avvince questa scrittura. C’è una verità umana che non leggo nelle mie parole, che mi sembrano talora pareti bianche altre volte nere dove vanamente mi dibatto. C’è molta forma nella mia scrittura. Non c’è che dire. Ma la sostanza dov’è? Dov’è l’emozione? Sembra nascondersi pervicacemente in una zona che neanche io riesco ad attingere. Stamattina, per esempio, c’è una sofferenza, c’è un dolore che non so dire. Proprio non mi riesce. La verità è che sono depressa. Già da un po’. La verità è che ho visto l’altra mattina un medico dopo anni che non ne vedevo uno. La verità è che da qualche giorno prendo dei farmaci, di quelli che non ottundono il cervello, non addormentano il dolore. Prendo la serotonina. La verità è che i primi giorni non c’è nessun effetto riscontrabile. Me l’ha detto il medico. Comincia a fare effetto dopo una decina di giorni. La verità è che spero che cominci presto perché non ne posso più. La verità è che spero che non venga nessuno qui con un prontuario di istruzioni su come si esce da questo stato, che nessuno venga a dirmi che la vita è bella e che prima o poi si esce dal tunnel. Che nessuno venga a dirmi che essere meraviglioso sono e quanti strumenti ho per affrontare tutto questo, che nessuno mi venga a parlare di autostima, che non ne posso proprio più, mi viene un prurito a questa parola, un prurito da orticaria e un successivo conato di vomito. La verità è che sto male. Punto.

sabato 15 novembre 2008

Lo Straniero



Premessa

Poco più di un anno fa ho conosciuto un uomo che ha abitato nella mia vita per qualche mese e mi ha insegnato delle cose. In una notte senza sonno mi ha raccontato la sua vita e la sua malattia. Aveva un modo di vivere la malattia e di raccontarla straordinario.
Quando si sta male in un certo modo c’è o la strada o l’ospedale, diceva …
La sua storia meriterebbe di essere scritta ché è davvero una storia forte. Non sarò però io a farlo. Scrissi in quel periodo un brevissimo racconto “Lo Straniero” in cui immaginavo la morte della madre di quest’uomo e una sua reazione a quest’evento. Nella storia “lui” fa la parte di un architetto (nella realtà l’uomo era un disoccupato che viveva di una pensione di invalidità e di qualche residuo di un’eredità pressoché sperperata oramai). Nella storia lui ascolta la “lirica”. Nella realtà credo che la detestasse perché il padre (un melomane) lo aveva costretto da bambino a seguire concerti lirici, ecc. ecc.
Quest’uomo non c’è più nella mia vita, ché qualche mese dopo la nostra conoscenza fu costretto a partire e a tornare nel centro Italia, dove, per quanto ne so io, vive con la madre da qualche mese. Partì precipitosamente dal Salento. Non feci in tempo a dargli il mio regalo di Natale, il libro di Rampino sull’India che da allora giace in cima alla mia libreria in una carta color dell’arancia. E’ lì perché se un giorno lui dovesse tornare nella sua casa sul mare vorrei che ci arrivasse con il mio dono che non ho potuto dargli allora. A quest’amico va oggi un mio pensiero d’affetto.

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Lo Straniero

Alte risuonavano le note di Oh Madre Mia nelle voci di Amilcare Ponchielli e Maria Callas. Attraversavano le pareti rimbalzando di scalino in scalino nella vecchia casa di città e poi invadevano il quartiere a grande forza. I vicini sopportavano pazientemente. In fondo solo di tanto in tanto di domenica mattina l’architetto alzava il volume e l’opera si ascolta così. In fondo l’architetto era una persona garbata, salutava sempre quando lo si incontrava per strada e poi si sollevava con uno scatto improvviso il bavero del cappotto color cammello. Da quant’è che abitava lì? Beh, saranno sette anni, almeno. Sempre lo stesso cappotto color cammello. Un’appendice del suo corpo. Impossibile pensare a lui senza immaginarselo nel suo cappotto, lungo ed elegante.
Quand’era arrivato lì, si pensava che fosse di passaggio, come gli inquilini che passavano sempre da quella casa, la casa di Giovanni. Giovanni, il benzinaio, quello che era stato coinvolto in quell’affare lì, quello delle case da gioco. Poverino, fare quella fine lì! Non aveva retto la vergogna. Si era sparato un colpo in testa una sera di dicembre di, quanto tempo sarà passato? Dieci? No, di più. Dodici anni, almeno.
La famiglia aveva abbandonato il quartiere pochi mesi dopo e la casa, quella grande casa di città era stata data in affitto. L’architetto era quello che si era fermato di più, lì.
La voce della Callas risuonava forte quando un trillo insistente lo richiamò alla realtà. Si scosse e lentamente alzò il ricevitore. Riconobbe subito la voce e capì dal timbro metallico che si trattava di qualcosa di serio. “Vieni”, disse Marta, “è ora di tornare”. Non ci fu bisogno di aggiungere altro. Da tre anni ormai non la sentiva, mai.
Un solo cambio d’abito sarebbe bastato. Preparò il bagaglio. Spense lo stereo ed andò a prendere il treno. La stazione affollata, come sempre, accolse l’architetto. Fece il biglietto per Roma e aspettò l’intercity delle 18.00.
Sul treno si alzò il bavero del cappotto quasi a proteggersi meglio dal freddo. Ma non c’era freddo nello scompartimento. Il suo freddo veniva da dentro e da lontano.
Appuntò lo sguardo fuori dal finestrino e rivide la casa di Roma, le alte porte laccate di bianco con i freddi pomelli, anch’essi bianchi. La luce che filtrava dalle persiane verdi sempre chiuse al mondo e lei. La rivide nei suoi gesti più consueti, quando con civetteria si scostava i capelli ramati dietro le spalle. La rivide mentre sorrideva al tavolo della sala da pranzo, mentre sorrideva a Tommaso, con quello sguardo di complicità senza fine, complicità da cui lui era escluso. Tommaso … Da bambino, era stato il suo idolo. Lui, le sue macchine sportive, l’ironia, l’intelligenza di Tommaso.
Tommaso … L’avrebbe trovato lì? Ne dubitava.
Arrivò a Roma dopo circa un paio d’ore. Aveva fame. Si fermò a mangiare qualcosa, in un luogo di poche pretese. Tranquillo. Alla sua portata. Già. Cos’era lui, se non un uomo di poche pretese, in fondo! Così diverso da Tommaso, senza grandi ambizioni. Lontano dalle luci della ribalta. La ribalta!
Lei era fatta per il palcoscenico. C’era una teatralità diffusa, sempre in lei. Sempre. Ma c’erano momenti in cui la sua forza di istrione veniva fuori quasi in modo furioso. Quando faceva tintinnare i cubetti di ghiaccio scintillante nel bicchiere, nella sua quotidiana sfida all’alcool.
Arrivò a casa che erano già le 23.00. Marta gli aprì la porta. Lui la guardò. Non era cambiata molto. Ci aveva pensato lei, gli disse. Aveva chiamato un’agenzia. Si erano occupati loro di tutto.
L’architetto diede uno sguardo alla casa. Com’era diversa rispetto ad allora! L’odore di piscio di gatti aveva invaso tutto lo spazio. Non più l’odore di lavanda dell’infanzia. Poi andò in camera. La guardò. “Sei ancora bella”. Pensò. “Bella come allora”. Chiuse la porta dietro di sé e disse a Marta: “Andiamo, torniamo domani per il funerale”. Uscirono per strada. C’era freddo. Una falce di luna splendeva nel cielo terso di marzo.

Ichnusa



Su un bicchiere di vino festeggiammo Paolo e la sua sposa. Era un secolo fa. Oltre i confini del mare nell’isola dove il tempo si è fermato. Chiudemmo il matrimonio con il sangue rosso rosso di cannonau stanchi di una lunga giornata di festa, cantando insieme una dolce canzone d’amore. E stamattina ripenso al mio sandalo sperso nel Mediterraneo.
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Ligustro.
Tavola Nera. La Lontananza.